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sabato, 14 Dicembre, 2024

Dalla Basilicata a Sanremo. Pegah Moshir Pour porta sul palco dell’Ariston il tema dei diritti in Iran

Isabella D'Andrea
Isabella D'Andrea
Giornalista pubblicista, scrittrice, femminista. Sono fuori tempo, in tutto. Ho vissuto tutta la vita con la sensazione che il tempo mi stesse sfuggendo dalle mani. Le mie notizie sono fuori tempo, in uno spazio dell'etere dedicato a chi non smette di sorprendersi, a chi ama approfondire, svagarsi e guardare le cose da un'altra prospettiva.

Da Teheran a Potenza a nove anni, per sfuggire alla violenza e alla repressione del regime iraniano, dalla Basilicata al palco dell’Ariston, per portare il racconto di un paradiso forzato, in un vero e proprio inno ai diritti umani. Creator digitale, ma non solo, “consulente e attivista dei diritti umani e digitali, nata tra i racconti del Libro dei Re e cresciuta tra i versi della Divina Commedia”, così si definisce Pegah Moshir Pour, la 31enne di origini iraniane arrivata in Basilicata insieme alla sua famiglia quando era solo una bambina per sfuggire a violenze e repressione, che da cinque mesi racconta le dilaganti proteste iraniane.

Dal 16 settembre 2022, giorno dell’uccisione per mano della polizia morale di Mahsa Amini – la ventiduenne “colpevole solo di essere sospettata di portare in maniera non corretta il velo” -, la sua voce è infatti al servizio della battaglia che il popolo iraniano sta portando avanti, “sacrificando con il sangue il diritto a difendere il proprio paradiso”. Il suo nome è diventato popolare quando, a seguito di quel 16 settembre, ha scritto una lettera alle università italiane chiedendo di tutelare gli studenti iraniani in Italia con problemi economici, di visto e di permesso di soggiorno.

Pegah Moshir Pour a Sanremo

Così, ospite della seconda puntata della 73esima edizione del Festival di Sanremo, facendosi accompagnare da Drusilla Foer – che calca nuovamente il palco dell’Ariston dopo l’enorme successo riscosso lo scorso anno -, Pegah Moshir Pour parla di diritti negati e delle condizioni in cui si vive in Iran, spiega cosa vuol dire vivere in un paese islamico, essere una donna o un bambino in un paese islamico. Ma anche cosa vuol dire essere un uomo che va contro il regime in un paese di totale violazione dei diritti umani. Lo fa attraverso la melodia e le parole di Baraye, la canzone diventata l’inno della rivoluzione che ha segnato l’Iran negli ultimi mesi. Cantata da Shervin Hajipour, musicando i tweet dei ragazzi che hanno scritto delle libertà negate, Baraye ha appena vinto i Grammy Awards nella categoria miglior canzone per il cambiamento sociale.

Il prezzo per il giovane cantante iraniano è stato però alto: il venticinquenne è stato arrestato, oltre che silenziato. E in effetti, come ha ricordato Amadeus introducendo l’attivista lucana, “la libertà non è da dare per scontata sempre, non è una cosa che appartiene di diritto a tutti”, anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo. E la stessa Pegah Moshir Pour esordisce facendo notare che in Iran non si sarebbe potuta vestire e truccare così e non avrebbe potuto parlare di diritti umani da un palcoscenico, perché sarebbe stata arrestata o forse addirittura uccisa. “E per questo – ha spiegato -, come molti altri ragazzi e ragazze del mio Paese, ho deciso che la paura non ci fa più paura. E di dare voce a una generazione cresciuta sotto un regime di terrore e di repressione, in uno dei Paesi più belli al mondo, uno scrigno dei patrimoni dell’umanità”.

Il paradiso forzato: Baraye e l’inno ai diritti umani

D’altronde “come si può chiamare un posto dove il regime uccide persino i bambini?” si è chiesta.

Un posto in cui si rischiano fino a 10 anni di prigione se si balla per strada o si ascolta musica occidentale, dove è proibito baciarsi e tenersi mano nella mano e dove si paga con la vita il desiderio di esprimere la propria femminilità. Un Paese in cui più di 20 milioni di persone sono sotto la soglia di povertà e non hanno soldi nemmeno per mangiare. Un Paese in cui i bambini perdono i loro sogni, vengono sfruttati e vivono raccogliendo i rifiuti. Un Paese in cui il regime uccide i cani di strada anche di proprietà e in cui gli intellettuali e i dissidenti vengono imprigionati e spariscono nel silenzio.
Un Paese in cui ci sono più di un milione di profughi afghani e in cui chi è omosessuale rischia l’impiccagione. (Qui l’intervento completo).

E, al grido di “donna, vita e libertà” – le parole chiave della rivoluzione, riprese dal movimento di liberazione curdo di fine XX secolo -, sceglie di sciogliersi i capelli sul palco. Un gesto liberatorio, simbolico, potente. Un gesto pieno di speranza per il futuro dell’Iran.

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